di Francesca Garofalo
All’Urban Center, alla presenza di Andrea Buccheri, Giovanni Randazzo, Rossana Cannata e Fabio Granata, il Presidente della Commissione Regionale Antimafia: “Nella nostra ricostruzione è venuta fuori una storia parallela a quella della sentenza, dentro la quale c’è una filiale di reticenze e omissioni”
Domenica mattina del 19 luglio 1992, un boato, il fumo sale in cielo e cinge i palazzi, ci sono auto distrutte e gente che urla. Siamo in via D’Amelio a Palermo, dove si è consumato l’attentato nel quale persero la vita il magistrato Paolo Borsellino e cinque agenti di scorta, quello che è stato definito con una sentenza a luglio 2018 tra i più gravi depistaggi della storia d’Italia. Un punto di inizio, dopo 26 anni di vuoto, in un pezzo di storia nazionale è la relazione eseguita dalla Commissione Regionale Antimafia in cinque mesi di lavoro con a capo il presidente Claudio Fava. Proprio lui, con la vice presidente Rossana Cannata, in presenza dell’assessore alla cultura Fabio Granata, l’assessore alla legalità Giovanni Randazzo e al consigliere comunale Andrea Buccheri come moderatore, ha evidenziato gli elementi sul depistaggio di Borsellino all’Urban Center con la conferenza “La Verità Nascosta”. Un lavoro cominciato con l’audizione di Fiammetta Borsellino con la raccolta delle sue famose 13 domande, che ha visto il susseguirsi delle persone che hanno partecipato alla vicenda per ragioni giornalistiche, investigative e giudiziarie con un’analisi delle forzature ed omissioni investigative. Tra i punti affrontati: i rilievi investigativi effettuati al momento della strage; il rapporto tra magistratura e servizi di sicurezza; la genesi del gruppo di investigazione Borsellino-Falcone con la mancata audizione di Borsellino da parte delle procure dopo l’omicidio Falcone. In conclusione le anomalie procedurali e documentali registrate all’interno delle sentenze precedenti. “Abbiamo fatto questo lavoro-dice Claudio Fava- perché fummo d’accordo nel fare da tramite, affinché le domande di Fiammetta arrivassero finalmente ad un destinatario. Questa è una ragione, poi c’è anche quella per cui in Sicilia siamo portati a pensare che ci sia un luogo di compensazione delle ingiustizie accumulate, delle nostre contraddizioni e quel luogo è la giustizia ordinaria di tribunale. In questa vicenda abbiamo dato una delega in bianco alla magistratura di scrivere la storia, attribuendo a loro una fatica non propria del mestiere che fanno. Della ricostruzione della storia, di tutti gli altri comportamenti che non sono penalmente rilevanti ma che stanno iscritti nel cammino della storia, se non se ne occupa la politica, chi lo fa? Ne è venuta fuori una storia parallela a quella della sentenza, dentro la quale c’è una filiale di reticenze e omissioni”. Dentro questo depistaggio, dunque, vige l’intenzione di far passare Borsellino come vittima unicamente dalla mafia. Occorreva trovare chi rendesse giustificabile ciò, così si è preso un falso pentito che ha indicato alcune famiglie mafiose responsabili. In questo modo la storia del paese è ridotta ad una situazione di comodo: “Cosa nostra si è vendicata”. Difficile pensare che dietro questa esecuzione, in realtà, ci sono state altre mani come quelle di un pezzo di stato, perché Borsellino era anche un ostacolo per chi riteneva che quella stagione dovesse muoversi verso altre destinazioni, come ad esempio provare a costruire una sorta di armistizio, un disarmo reciproco tra un pezzo di cosa nostra ed un pezzo di istituzione. A ciò è servito il depistaggio, a non fare domande sgradevoli ed inutili sulle cose avvenute prima della morte di Borsellino, sulla strage di Capaci e sulle confidenze con Falcone, tanto da far sì che Borsellino non venga ascoltato per 57 giorni da nessuno dei due procuratori della Repubblica di Caltanissetta. Un incontro col procuratore, venne fissato per “fatalità “ solo un giorno dopo la sua morte, di cui non sapevano nulla né i familiari né il maresciallo Carmelo Canale che lo seguiva nelle trasferte e stava sempre con lui, il quale ha riferito che il giorno dopo l’attentato con una telefonata da Roma viene trasferito e non verrà ascoltato per cinque mesi. A ciò si aggiungono altre stranezze: la procura di Caltanissetta manderà un giovane giudice da Borsellino per discutere sul tema mafia nel bar dove prende il caffè, cosa che stupisce anche lo stesso giudice. E com’è possibile che quattro ore dopo la morte di Borsellino dalla procura di Caltanissetta parte una mail al direttore del Sisde (Servizi di sicurezza) su una riunione nella quale le indagini sarebbero state affidate a questo organo sapendo di violare la legge, cosa che sapeva anche la presidenza del Consiglio dei ministri? La presenza di questi Servizi sul luogo della tragedia è immediata, un ufficiale della polizia di stato ha dichiarato di essere entrato nella nube di fumo per vedere se c’erano ancora persone vive e si è trovato al cospetto due individui in abito scuro, impeccabili che gli dicono: “Servizi!” mostrando la placca. Scompare l’agenda rossa. Nello stesso istante, nella casa al mare del giudice mani forestiere frugano nella stanza da letto e non trovando niente, rimetteno a posto. Altre mani frugano nell’ufficio del giudice a Palazzo di Giustizia. Il primo atto steso dai Servizi è l’audizione di Vincenzo Scarantino, contrabbandiere di sigarette collegato al retaggio mafioso. Si comincia a vestire il pupo, per fabbricare i primi passi del depistaggio i cui capifila sono il capo della squadra mobile Arnaldo La Barbera e il procuratore della Repubblica di Caltanissetta, entrambi morti, a cui si riconduce ogni patologia dell’indagine. Nonostante le confessioni di Scarantino, molti sostengono che è un millantatore e non c’entra con cosa nostra. Perché tali supposizioni non sono state messe in discussione? Perché secondo il procuratore dell’epoca: ”Era complicato. A quel punto con ergastoli già comminati e sentenze, il paese aveva la certezza che l‘indagine avesse prodotto un elemento di verità giudiziaria”. Altra incongruenza, a Caltanissetta Bruno Contrada riceve l’incarico di seguire le indagini su via D’Amelio, mentre a 50-60 km, lo stesso, è sotto indagine perché considerato colluso con la mafia. Tutto accade senza lasciare traccia fino a quando: Scarantino ritratta tutto in un’intervista telefonica con un giornalista. Il giorno dopo due ufficiali di polizia giudiziaria si presentano a Mediaset e danno l’ordine di cancellare dal server la ritrattazione perché, si sostiene, voluta da cosa nostra per mettere paura al collaboratore di giustizia. Scompare la lettera del pull antimafia che evidenzia dei punti anomali, come Scarantino che entra per prendere dell’acqua nella sala dove ci sono i capimafia e sente Riina condannare a morte Borsellino. “Probabilmente abbiamo sprecato 10 anni-dice Fava- avremmo potuto avere la certezza giuridica e giudiziaria che Scarantino mentiva, che c’era l’intenzione di portare le verità investigative in una direzione sbagliata senza aspettare nel 2008 l’arrivo di Gaspare Spatuzza”. Perché non è mai stato ascoltato il procuratore della repubblica di Palermo Pietro Giammarco, ancora vivo e che avrebbe potuto spiegare perché ha affidato la competenza sulla provincia di Palermo soltanto la mattina del 19 luglio; le ragioni di un rapporto poco collaborativo con Borsellino sulla morte di Falcone e sull’indagine penale per ipotesi di reati comuni che lo riguardava?. “La vita è più complessa- conclude Fava- di come ce l’hanno raccontata e ho la convinzione profonda che il compito della politica sia anche di farsi carico di queste complessità, che non possiamo rimettere nelle mani dei magistrati, perché ci sono comportamenti che non hanno nulla di rilevante dal punto di vista penale e hanno l’aspetto di una storia che va ricostruita e riscritta in modo diverso da come ci è stato detto. Credo che questo dovere appartiene soprattutto alla Commissione regionale antimafia perché questi fatti accadono e offendono la verità e l’amore per questa terra e questi fatti chiamano in causa la responsabilità di tutti noi siciliani”